Oggi ci sarà la seduta lampo (dieci minuti) della Camera dei Deputati, per incardinare e dare l'avvio al decreto legislativo sul femminicidio. Un decreto che tanto si aspettava, ma che di fatto è strumentale, poiché si è presa l'urgenza di varare una normativa che ponesse fine al femminicidio, per imporre delle norme repressive contro i movimenti di protesta. Di fatto il Decreto legge è diventato un pinkwashing: si usano le donne come cavallo di Troia per la criminalizzazione e la repressione, si richiama l'”emergenza femminicidio” come fondamento materiale per l'affermazione di una cultura securitaria e repressiva. Lo spirito repressivo ed intimidatorio dell'intero decreto lo si trova - come afferma il laboratorio “Sguardi Sui Generis” - perfettamente esplicitato nel decimo articolo che titola “Norme in materia di concorso delle Forze armate nel controllo del territorio e per la realizzazione del corridoio Torino-Lione, nonché in materia di istituti di pena militari” e quindi il riferimento è chiaro contro il popolo di una valle, contro i NO TAV. Nell'articolo si annuncia una maggiore flessibilità nell'impiego massiccio delle Forze armate nei territori e l'attribuzione di nuove funzioni alle truppe occupanti, le quali non saranno tenute a limitarsi ad operazioni di semplice perlustrazione e pattugliamento. Si paventa un inasprimento delle pene per violazione dei cantieri delle cosiddette “grandi opere”, il divieto di cortei e manifestazioni per ragioni di sicurezza. Tutto questo è stato inserito approfittando che nessuno si sarebbe opposto pubblicamente ad un pacchetto di provvedimenti propagandati come armi importantissime per combattere la violenza contro le donne. Peccato che nel decreto non si parli della violenza nelle caserme, nei CIE (Centri di identificazione ed espulzione), nelle aule del tribunale, dentro le istituzioni, nel linguaggio, nei media, al lavoro, del cyberstalking (lo stalking per via informatica), ecc. Non si parli dei centri antiviolenza, e tanto meno della loro moltiplicazione e finanziamento. Non si parli di centri di ascolto per uomini abusati. Non si parli di prevenzione, ma si pigia sul pedale della guerra fra i sessi. Non si parli di scuola, formazione di educatori, di libri di testo sin dalle elementari che educhino al genere, all'affettività e alla sessualità. Si ghisa sugli strumenti fondamentali: un osservatorio che monitori i femminicidi, dicendo quanti sono e come avvengono, non bastano le statistiche di differenti istituzioni, che spesso, tra l'altro, si contraddicono e non si parlano, e sono imprecise. Tutto questo, che farebbe parte del trattato di Istanbul, non c'è. E come ha scritto Concitta De Gregorio, “Dire che la pena sarà di un terzo più severa nel caso in cui le vittime siano incinte o mogli o compagne o fidanzate del carnefice è comprensibile dal punto di vista del legislatore, perché si che battere una donna che aspetta un bambino o che ha un vincolo di fiducia con chi la aggredisce è più grave. Ma stabilisce anche la discriminazione culturalmente delicatissima verso le donne che non hanno figli e non hanno legami con un uomo.” In che senso ci si chiede uccidere una donna non sposata e non madre è meno grave, rispetto ad una nubile? Queste donne valgono forse di meno per la società? La lotta alla violenza contro le donne sia essa fisica, psicologica, sessuale, simbolica o materiale, non la si combatte con una politica securitaria, la si fronteggia avviando percorsi formativi sessuati nelle scuole e in tutti i luoghi in cui le relazioni tra i sessi potrebbero essere sottratte agli stereotipi maschilisti, viriloidi, patriarcali; costruendo un tessuto sociale e culturale e solidale tra donne e nei confronti delle donne. Percorsi formativi per docenti, personale dei tribunali, commissariati, vigili urbani, personale sanitario e così via. Si deve arrivare ad una modifica profonda della relazione tra i sessi e soprattutto la centralità di una soggettività femminile libera e consapevole della sua autonomia e della sua autodeterminazione. Senza di questo si rischia la celebrazione, in Parlamento e sui media, del solito squallido rito dell’“unanimità” sulle donne. La violenza nel decreto, è considerata, infatti, come una questione securitaria e non di privazione della libertà. Il Governo ha utilizzato la lotta di chi si oppone al femminicidio e alla violenza sulle donne in chiave rassicurante, consolatoria e paternalistica. Ha usato quella lotta per legittimare l'operato contro chi si oppone alla devastazione del proprio territorio e alle logiche di un governo.
Irene Rui – Forum delle donne di Rifondazione Comunista di Vicenza